di Biancaneve Suicida
Le mani cominciavano a fare male, le dita arrossate, i fumetti di fiato sempre più densi. Ogni tanto, mentre rovistava tra le foglie, colpiva un riccio; emetteva allora un “ahi” acuto, ritraendo istintivamente la mano, poi sorrideva e la rituffava giù, ad afferrarlo. Con gesti sapienti lo forzava cercando di non pungersi più, il viso infantile concentrato e ne tirava fuori le castagne, di quel marrone vibrante, caldo e lucido di sfolgorante autunno. Ne aveva un sacchetto già bello pieno che risuonava appeso alla cintura. Talvolta, accanto a lui, si scorgeva passare una nuvola: era Minnie, un barboncino bianco come un batuffolo di cotone idrofilo, che, eccitata da quell’inattesa gita, scorrazzava a destra e a manca, inseguendo scoiattoli, uccellini, ma anche foglie fluttuanti e insetti. “Minnieeeee” la chiamava ad intervalli, quando la sua mente ne registrava l’assenza protratta; sentiva allora un fruscio, un cespuglio si agitava frenetico e il suo tartufo nero, in mezzo al musetto bianco e vivace, spuntava tra le felci e gli correva incontro, andandosi ad intrufolare tra i piedi. “Daiiii, smettila, mi farai cadere!”. Faceva il gesto di allungarle un buffetto, lei si schiacciava a terra dimenando la coda e un istante dopo si rizzava sulle zampe e ricominciava a trotterellare allegramente.
Passarono così diverse ore. L’oscurità nel bosco cominciò a serpeggiare, furtiva, annidandosi tra le fronde degli alberi, come un mantello che piano piano discende dall’alto inghiottendo tutto. Banchi di nebbia, spettrali, si riunivano nelle piccole radure che si aprivano tra il folto degli alberi, come piccoli laghi sospesi. L’umidità cominciava ad incollarsi addosso, appesantendo i passi e affaticando il respiro. Era ora di tornare a casa, era forse già troppo tardi. “Minnieeeee” chiamò. Si accorse di non sentirla da un po’, una mezz’ora almeno, concentrato com’era nella ricerca. “Minnieeeeeeeee”. Nessun movimento, nessun rumore. Si rese improvvisamente conto che non si sentiva più un solo richiamo tra gli uccelli, non un ronzio, un fruscio. Nulla. Anche la sua voce sembrava risucchiata dagli alberi, soffocata, nel silenzio sempre più pesante. “Minnieeeeee!”, quasi un urlo questa volta, rauco, quasi con rabbia, quella rabbia che nasconde il terrore, quando il cuore comincia a rimbombare nelle orecchie, quando un rimbalzo sordo sembra spingere le lacrime agli occhi e le mani, sempre più fredde, tremano fragili come le foglie in autunno.
Poi uno scivolare di foglie, poco più avanti. Si immobilizzò, totalmente. Anche il cuore avrebbe fermato e forse si fermò davvero, per un attimo, per poi quasi scoppiargli in petto. “Minnie?” Un bisbiglio adesso, flebile, un soffio di fiato quasi percettibile. Fece un passo avanti. Il suono sembrava provenire da un albero, davanti a sé. I suoi occhi, sbarrati, cercavano la figuretta familiare, il suo apparire festoso, il suo abbaiare indispettito. Cosa fare? Il crepuscolo era già passato? Non poteva lasciarla lì, sola , nel bosco, sarebbe morta di paura, lo sapeva, e allora come fare? Di nuovo lo stesso fruscio. Di sicuro poco più avanti, presso quel grande albero, strano, diverso da ogni altro: il tronco non presentava chiazze di muffa similmente agli altri tronchi, era uniforme e nodoso, con profonde fenditure, come una maschera spaventosa. Ma di sicuro era da lì che proveniva il rumore. Si avvicinò allora, guardingo e terrorizzato, anche lui ridotto ormai a un piccolo animale in preda al panico. Il richiamo sembrava morirgli in gola prima ancora di uscire: “Min…”. Dov’era finita? Se era lì, perché non rispondeva? Si avvicinava, piano piano, a quel rumore insistente di foglie secche smosse. Avrebbe fatto lo stesso rumore lei calpestandole? No, forse no, ma cos’altro poteva essere? Non poteva essere altro che lei, probabilmente attratta dalla curiosità per una biscia tra le radici nodose della pianta, dove, forse, era rimasta intrappolata. “Mi…”. Si chinò alla base di quell’enorme albero cercando di spiare tra le cavità che si aprivano tra la terra e il tronco. Poi uno scalpiccio alle sue spalle e un guaito che gli gelò il sangue. Si voltò, improvvisamente, rischiando un torcicollo. Eccola, era lì! Fece in tempo a notare il suo nervosismo, mentre, sempre guaendo, si appiattiva stirando le zampe, indecisa se allontanarsi o meno, tremante. “Minnie, che succed..?” Prima che potesse terminare la frase qualcosa lo afferrò strettamente alle caviglie facendolo cadere con un tonfo, il viso schiacciato tra le foglie. Se ne riempì la bocca nel tentativo di respirare: “Minnie, aiutami!” pianse. La vide, folle di paura, girare in tondo, vorticosamente. Poi un’altra radice lo strinse alla gola e lo trascinò nel buio della terra, mentre le castagne raccolte rotolavano, spargendosi tutt’intorno. Quel giorno, le grandi foglie di quel misterioso albero, si tinsero di scarlatto.