di Wish aka Max

"Mamma che fai? Parli da sola?"
L'anziana signora sollevò lo sguardo dal quaderno sul quale era intenta a scrivere fitto fitto, e guardò il figlio con un sorriso.
"Scrivo a papà, gli sto raccontando che oggi Kira ha incontrato un altro cane e a momenti mi butta per terra"
"Mamma dovresti parlare con la gente in carne e ossa, non sarebbe meglio?"
"Ma io ci parlo, è che con lui riesco meglio a dire le cose, e poi sono sicura che lui mi sente, da lassù"
"Mamma sono passati 4 anni, possibile che ancora non ti rassegni?"
"No non mi rassegno, per me lui era tutto, e con lui se n'è andata una parte di me"
Alessandro posò le sue cose sul divanetto nell'ingresso e andò incontro alla madre per baciarla. Come quasi ogni settimana, era venuto a trovarla con la scusa di pranzare insieme. La scusa, perché i pranzi non erano certo ricchi dei manicaretti che la madre usava cucinare da giovane. L'età, e la morte del marito (nonché padre di Alessandro, ma questo l'anziana signora sembrava dimenticarlo) l'avevano resa pigra e accidiosa, lei che prima era sempre in movimento.
"Ma poi scusa", disse Alessandro sedendosi a tavola, "che piacere ne trai, da questo scrivere al nulla?"
"Non ti permettere. Non è il nulla, e come ti ho detto io sono sicura che lui mi sente e mi vede. E a volte mi pare di sentirla, la sua voce".
Di fronte ad una dichiarazione di certezza così incrollabile, Alessandro pensò che era meglio darci un taglio e parlare del più e del meno, come al solito. Sapeva che le preoccupazioni della madre, i sentimenti profondi, i pensieri nascosti, non sarebbero mai stati rivelati nelle loro conversazioni a pranzo, ma avrebbero trovato posto all'interno di quella sequela di taccuini tutti uguali, tutti con la copertina nera, tutti a righe. Li comprava in serie, con il suo solito approccio al limite del maniacale per la regola, l'ordine e la disciplina. E li custodiva gelosamente dentro l'armadio, inaccessibili a tutti. E lo sarebbero stati in ogni caso, visto che la scrittura di sua madre era assimilabile ai geroglifici.
Parlarono della manovra economica, sua madre leggeva il giornale tutti i santi giorni dalla prima all'ultima riga. Il giornale era il Corriere della sera, non ne esistevano altri. Alessandro ricordava che la madre lo comprava sin da quando l'edizione romana ancora non esisteva; il padre invece era un affezionato de "Il Messaggero", quotidiano di Roma, ma la madre non lo leggeva neanche quando il Corriere non arrivava in edicola. Era sempre informatissima sulle ultime vicende di politica interna ed estera, sui principali fatti di cronaca, e sui piccoli gossip consentiti da quel giornale, un po' serio, un po' parruccone.
E dopo il pranzo, niente caffè perché Anna aveva diritto a un solo caffè al giorno, che aveva "barattato" con il medico con due ristretti. E quei due ristretti dovevano essere del bar. E se non lo prendeva lei, il caffè, non lo prendeva nessuno. Alessandro neanche faceva più caso a queste piccole cose, aveva da tempo sposato il principio che quella era l'unica madre che aveva, e cercava di conviverci facendo del suo meglio.
Alessandro si avviò al lavoro e Anna rifletté sul fatto che nessuno la capiva, come le era capitato tante volte nella vita. Nessuno l'aveva mai in realtà completamente capita. Nessuno, tranne Armando. Il solo pensare al nome le provocava una fitta di dolore, perché pensare al nome e ripensare al fatto che non c'era era tremendo. A volte era arrabbiata con lui, e glielo scriveva anche. Lo rimproverava di averla lasciata sola, di essersene andato quasi senza avvisare. Di non aver combattuto abbastanza contro il mostro, un cancro ai polmoni che se l'era portato via in neanche un anno. Armando si era come arreso alla malattia, rassegnandosi alle terapie, alla chemio, alla radio, senza mai completamente crederci. E quando i medici avevano detto che il cancro era regredito, e Anna era quasi impazzita di gioia, lui aveva accolto la notizia con un'alzata di spalle, quasi sapesse quello che stava per accadere. Stava per accadere che la bestia, come una novella Fenice, sarebbe rinata più grande e forte, e in pochi mesi avrebbe vinto. A mani basse. E Anna non si capacitava di questa inerzia di Armando, lui che aveva sempre combattuto, sin da giovane, per qualunque cosa. Qualunque situazione veniva affrontata come una sfida da vincere, anima e corpo, o si vince o si perde, ma ci si butta dentro con tutte le energie.
Quattro anni. Quattro lunghissimi anni. Anna abbandonò questi pensieri e si mise a rassettare, in attesa della passeggiata pomeridiana con il caffè agognato. Chiamò un'amica al telefono e si organizzò per passare da lei dopo la passeggiata.
Il pomeriggio se ne andò così, come tanti altri pomeriggi, uno uguale all'altro. Dopo cena, come tutti i giorni si mise alla scrivania e iniziò a scrivere ad Armando.
Gli raccontò della giornata appena trascorsa, gli disse del pranzo con Alessandro, della passeggiata, dell'amica. Mentre stava raccontando dell'amica, notò che dal centro della pagina del quaderno accanto a quella su cui stava scrivendo si sollevava un filo di fumo. Alla base del fumo c'era una bruciatura che non bruciava, non c'era né fuoco né brace. Il foglio sembrava semplicemente passare da carta a cenere senza soluzione di continuità. La "bruciatura" si allargava, partendo dal centro era diventata come una moneta da un euro, poi da due, e continuava ad allargarsi. Anna alzò la mano dal quaderno, continuando a guardare il buco che si allargava sempre più, quasi ipnotizzata dalla vista. Si riscosse quando la "bruciatura" passò alla pagina che aveva appena scritto. Sollevò il quaderno e provò ad agitarlo, a sbatterlo, ma niente. Continuava a trasformarsi inesorabilmente in cenere. Lasciò andare il quaderno con un grido e vide che tutto quanto aveva intorno cominciava a disfarsi, a incenerirsi. La scrivania, il divano, il lume, tutto si trasformava sempre più velocemente in cenere. Le pareti, la casa, tutto si dissolveva. Tutto diventava cenere. Intorno ad Anna non c'era nulla, solo cenere. Ma no, ecco, da lontano qualcosa veniva verso di lei. Sembrava un grosso cane, che arrivava al piccolo galoppo. Avvicinandosi però Anna rimase interdetta. Gli occhi erano rosso fuoco, quasi brillanti. Il corpo era coperto di squame, e i denti... erano delle enormi zanne. La bestia ringhiava e sbavava, e si avvicinava sempre più. E più si avvicinava più diventavano visibili particolari inquietanti. Le unghie. Lasciavano delle impronte terrorizzanti. Le squame. Dure come quell'armadillo di quel disco che Alessandro aveva comprato da ragazzo, Tarkus. Ma nello stesso tempo viscide, coperte di una specie di melma putrida. Le narici, che si aprivano e chiudevano affannosamente al ritmo del respiro. E il ringhio. Si sentiva sempre più forte. Entrava nelle ossa e scatenava dei brividi incontrollati. Era chiaro che si stava dirigendo verso Anna, ed era altresì chiaro che aveva intenzioni poco amichevoli. Anna non riusciva a pensare. Non riusciva neanche a domandarsi perché tutto fosse scomparso, perché lei si trovasse in questo non-luogo a tu per tu con un mostro, era diventata un grumo di paura. Paura ancestrale, di quelle che ti lasciano senza respiro e ti attanagliano lo stomaco e ti fanno rabbrividire.
E mentre era lì che rabbrividiva, dalle sue spalle spuntò una figura umana incappucciata, con un enorme spadone, che ad Anna ricordava la Durlindana di re Artù. La figura si frappose tra Anna e il mostro. Non ci fu neanche discussione. Lo spadone si mosse con la velocità del fulmine. Anna vide solo uno scintillio, un fiotto di liquido verdastro zampillare, il corpo del mostro accasciarsi e la testa rotolare da una parte. Il guerriero si voltò verso Anna, mentre dal basso la realtà tornava a formarsi, dalla cenere prendevano nuovamente forma tutti gli oggetti familiari, le mura, il salone, il divano, la scrivania, il quaderno, la penna. Il guerriero si tolse il cappuccio.
"Armando... sei tu..."
Alessandro la trovò la mattina dopo, accasciata sulla scrivania. Aveva un sorriso sulle labbra.